di Luigi Oliveri
Una società cooperativa sociale onlus la determinazione di aggiudicazione a seguito di procedura negoziata, insieme con tutti i documenti di gara ed i verbali della commissione di gara per la mancata esclusione dell’aggiudicataria, poiché questa non ha presentato l’indicazione analitica e separata dei costi della manodopera, per altro non espressamente richiesti dalla documentazione.
Il Tar Lazio, Sezione Seconda Bis, sentenza 28.2.2023, n. 3422 accoglie il ricorso, sulla base dell’ormai consolidato orientamento secondo il quale “L’indicazione separata dei costi aziendali della sicurezza e della manodopera è funzionale alla salvaguardia di interessi di rilevanza superindividuale, tra cui la tutela dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, e, con riferimento specifico allo svolgimento della gara, mira, da una parte, a consentire al partecipante la possibilità di formulare un’offerta consapevole con riferimento a tali significative voci di costo, e, dall’altra, a permettere alla stazione appaltante di procedere alla verifica della congruità del costo del lavoro che il medesimo art. 95 comma 10 d. lgs. n. 50/16 impone quale indefettibile formalità da espletare in ogni caso anche se l’offerta non è tecnicamente “anomala” (art. 97 commi 1 e ss. d. lgs. n. 50/16) o “incongrua” (art. 97 comma 6 d. lgs. n. 50/16)”.
Ma, quel che specificamente interessa sono le considerazioni del giudice amministrativo rispetto alla linea difensiva del comune. Le argomentazioni difensive principali sono:
– il costo della manodopera sarebbe predeterminato ab origine, con riferimento alla tipologia del servizio oggetto di affidamento, nella lettera di invito, che indica le modalità di calcolo, basate sul al costo orario del lavoro per il personale indicato dal Ministero delle Politiche Sociali e del Lavoro relativo al costo medio orario del lavoro per le lavoratrici e i lavoratori delle cooperative del settore”;
– “nella fattispecie l’ente locale avrebbe posto in essere una mera procedimentalizzazione dell’affidamento diretto, consentito dall’art. 1 comma 2 d.l. n. 76/2020 per appalti di importo fino a 139.00 euro e, quindi, superiore a quello oggetto di causa, con conseguente inapplicabilità dell’onere formale di cui all’art. 95 comma 10 d. lgs. n. 50/16. non previsto per tale procedura”.
Il punto “caldo” è il secondo. La difesa comunale presenta un’argomentazione erronea e falsata, in armonia con un errore ancora larghissimamente diffuso tra le amministrazioni e, ovviamente, in particolare tra i Rup, non sufficientemente attrezzati ancora per comprendere la distinzione esistente tra affidamento diretto vero e proprio e procedura selettiva competitiva.
Il Tar evidenzia che le argomentazioni del comune non possano essere condivise, poiché nel caso di specie “viene in rilievo una procedura negoziata tramite richiesta di offerta sul Mepa e non già un affidamento diretto come espressamente desumibile dal disciplinare di gara”.
Un primo elemento è da evidenziare: la Rdo consiste esclusivamente nella strutturazione procedurale nel Mepa di una vera e propria procedura negoziata. Alla Rdo partecipano più operatori economici, in vario modo ammessi dalle amministrazioni, presentando vere e proprie offerte, nell’ambito di una struttura di gara composta da modi di presentazione, tempi da rispettare, documenti da esibire, descritti così da creare un sistema di competizione a parità di condizioni, il cui esito consista nella formazione di una graduatoria finale disposta a seguito della valutazione e confronto delle offerte presentate e ammesse se rispettose delle disposizioni della lex specialis e anche delle norme generali di legge.
Poiché questo è una Rdo, essa non può essere mai confusa e ritenuta assimilabile ad un affidamento diretto.
La confusione e l’errore sono sempre gli stessi: tantissimi enti e Rup continuano a ritenere che “preventivo” e “offerta” siano sinonimi rappresentanti il medesimo concetto ed aventi la medesima funzione giuridica.
Non è così. Il preventivo è semplicemente e solo un elemento istruttorio, un’informazione priva di qualsiasi rilevanza negoziale, acquisita dall’amministrazione appaltante nella fase precedente all’attivazione della vera e propria negoziazione, fase in cui l’amministrazione appaltante cerca di reperire nel mercato informazioni tecniche ed economiche, volte a creare le basi per la motivazione che conduca a scegliere l’operatore economico con cui attivare l’affidamento diretto. E’ solo dopo tale scelta che si deve attivare la fase di negoziazione, nella quale non c’è alcuna “offerta”, perché non esiste nessun altro competitore nell’ambito di una modalità strutturata di selezione; nella negoziazione dell’affidamento diretto, l’operatore economico è già stato selezionato ed individuato: occorre soltanto la chiusura definitiva dell’accordo contrattuale e sostanzialmente si procede per affinamento progressivo delle condizioni (prezzo, tempi, modalità tecniche), come si farebbe (ma in modo ben più complesso) nel dialogo competitivo.
Pertanto, l’affidamento diretto non è una competizione; non essendovi una gara, non vi sono offerte da confrontare; conseguentemente non esiste un criterio di gara da seguire, né va incaricato un seggio o meno ancora nominata una commissione giudicatrice.
La presenza, però, di documentazione tecnica per l’ammissione, di un seggio o di una commissione giudicatrice, di tempi per la presentazione di vere e proprie offerte, di plurimi operatori economici partecipanti, di una graduatoria, di una proposta di aggiudicazione e di un’aggiudicazione, sono indicatori molto chiari: sebbene l’ente abbia (erroneamente) inteso qualificare come affidamento diretto una procedura composta come sopra, nella realtà pone in essere una vera e propria procedura negoziata. Ed è la conclusione alla quale giunge il Tar nel valutare nel merito l’operato dell’ente.
La sentenza aggiunge che nel caso di specie, la modalità seguita dal comune “prevede la nomina di una commissione e individua un vero e proprio criterio di aggiudicazione, quale è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa (art. 2 del disciplinare di gara), che non avrebbe ragion d’essere nel caso di affidamento diretto con richiesta di preventivi”.
Occorrerebbe scolpire queste parole nelle menti di tutti coloro che risultino chiamati a qualsiasi titolo a gestire procedure di affidamento diretto.
Il Tar rende ancor più analitica la propria motivazione, evidenziando che nel caso di specie la procedura seguita tutto è tranne che un affidamento diretto e “ciò è confermato dalla lettera d’invito che espressamente fa riferimento alla procedura negoziata ex art. 36 comma 2 lettera b) d. lgs. n. 50/16 (in realtà il riferimento normativo corretto sarebbe stato l’art. 1 comma 2 lettera b d.l. n. 76/2020 dal momento che il predetto decreto legge, per gli affidamenti sottosoglia, deroga all’art. 36 comma 2 d. lgs. n. 50/16) senza alcuna menzione alla richiesta di preventivi prevista per gli affidamenti diretti dagli artt. 36 comma 2 lettera a) d. lgs. n. 50/16 e 1 comma 2 lettera a) d.l. n. 76/2020. Per altro, la richiesta di offerta sul Mepa, per pacifica giurisprudenza, è disciplinata secondo il modello della procedura negoziata e, comunque, comparativa e non già come affidamento diretto (Cons. Stato n. 3999/21)”.
Che si debba continuamente assistere a questo paradossale contenzioso riguardante l’esatta configurazione del sistema di individuazione del contraente oggettivamente appare inaccettabile.
E’ sicuramente vero che la normativa in merito alla disciplina dell’affidamento diretto è scritta male, malissimo: è confusionaria, incerta, lacunosa, contraddittoria e di certo non completa ed esaustiva quanto lo sono le sentenze come quella in commento. E ci si chiede perché il Consiglio di Stato abbia regolato a propria volta l’affidamento diretto in modo sibillino e confusionario nel d.lgs 36/2023.
Tuttavia, l’analisi complessiva dell’istituto dell’affidamento diretto, specie alla luce della giurisprudenza (pur considerando la presenza di sentenze talvolta in controtendenza con la corretta definizione dell’affidamento diretto e la sua necessaria non coincidenza con procedure selettive e competitive; ma, si tratta di sentenze clamorosamente erronee), conduce alle conclusioni bene evidenziate dalla sentenza in commento.
C’è, allora, un problema molto grande di attenzione nelle amministrazioni e di formazione dei Rup. Inutile affermare fideisticamente il principio della “fiducia” nelle competenze dei funzionari della PA, quando si assiste continuamente alla comprova di una competenza operativa assai lontana dal quello standard necessario ad attestare realmente tale “fiducia”.
La sentenza in commento, poi, si segnala per essere l’ennesima conferma che l’intera disciplina normativa relativa ai costi della manodopera è un’insensatezza burocratica, capace solo di creare carte e complicazioni operative, lasciando gli operatori economici liberi di decidere i propri costi come meglio credono: “la dedotta predeterminazione del costo del lavoro nella lex specialis, da cui parte ricorrente desume la superfluità dell’onere formale di cui all’art. 95 comma 10 d. lgs. n. 50/16, non può essere intesa come minimo inderogabile ai fini della formulazione dell’offerta economica e ciò in quanto “il costo del lavoro non è un costo standardizzato e uguale per tutte le imprese, che possa essere predeterminato dalla stazione appaltante e previamente scorporato sulla base di indicazioni tassative da questa provenienti, e così pure il costo per la sicurezza aziendale, trattandosi di elementi che possono variare in relazione all’organizzazione del lavoro dell’impresa e all’efficienza della stessa” (Cons. Stato n. 589/16; nello stesso senso Cons. Stato n. 2844/17). Ne consegue la perdurante rilevanza, ai fini sopra indicati, dell’onere di separata indicazione del costo del lavoro. In ogni caso, la predeterminazione del costo del lavoro non interferisce con la permanente necessità di separata indicazione degli oneri aziendali della sicurezza”.
FONTE: https://leautonomie.asmel.eu/